
Stefano Andreutti: “La musica va vissuta, non solo ascoltata”.
Determinato e visionario, unisce concretezza a una mente libera e innovativa. Sa pianificare con precisione, ma non teme di rompere gli schemi quando serve. Ambizioso, cerca traguardi che abbiano senso e impatto. Ha uno sguardo che va oltre l’orizzonte e la capacità di trasformare idee audaci in progetti solidi, sempre con coerenza e originalità.
Stefano Andreutti, mi spiega la sua missione di far conoscere i vari aspetti della musica?
La mia missione è ovviamente quella che io svolgo con i miei laboratori. Nell’infanzia, nella scuola primaria, questo è la mia missione, quindi avvicinare e far vivere la musica e conoscerla, soprattutto nei suoni, ai bambini.
Lei nasce in Camerun: Com’è stato riadattarsi alla vita europea dopo 11 anni?
All’inizio non è stato molto facile, perché ovviamente c’è un aspetto culturale e di vita completamente diverso. In effetti ho chiesto di tornare in Camerun. Però poi un po’ alla volta ho scoperto che c’erano anche delle cose interessanti nella nostra realtà.
C’è un angolo di Udine che considera particolarmente “musicale”?
Forse c’è stato a suo tempo che era nel vecchio Borgo Villalta, che c’era un posto che si chiamava “La Librera” e lì si faceva tanta musica in mezzo anche ai libri. Adesso luoghi così non esistono più, esistono alcune realtà che ogni tanto hanno la possibilità, però a mio parere, per quanto riguarda Udine, è sempre più difficile.
Qual è il suono dello spirito sonoro?
È un suono che si cerca di coinvolgere tutte le persone, soprattutto quelle che molte volte non danno importanza al suono o quindi alle sue dinamiche, al di là dell’ascolto, ma proprio di ciò che il suono nel bene e nel male può fare, perché ci sono dei suoni diciamo buoni e dei suoni che possono essere negativi, e molte volte le persone non hanno coscienza di questo.
In che modo il battito delle percussioni riflette il suo modo di vivere?
Mah riflette abbastanza, nel senso che… Allora, le percussioni ovviamente è la cosa più di terra che esista, in tutte le realtà, in tutte le culture. Quindi anche nella nostra realtà friulana, soprattutto in Carnia, si usavano dei tamburi. E quindi è molto collegato anche a ciò che siamo noi quando siamo feti. Quando siamo dentro che sentiamo il battito del cuore, dalla mamma che non è altro che poi quello del sangue quando scorre. Quindi è una cosa che secondo me ci portiamo sempre dietro. Poi a volte ce lo dimentichiamo, nel senso che non facciamo caso, però secondo me è molto presente in tutti noi.
La sua esistenza è una jam session o una performance a partitura fissa?
È una via di mezzo, perché la jam session è una cosa molto bella. Però io amo molto il jazz e soprattutto la sperimentazione, però c’è anche una battuta che si fa così nel nostro ambiente che “il free jazz piace a chi solo lo suona”. Quindi è anche importante secondo me avere la capacità di avere una base con la partitura. Poi da lì puoi anche spaziare in cose, però solo improvvisare a volte è un po’ pericoloso.
In che modo lo studio ha contribuito alla sua crescita?
Lo studio ha contribuito molto ed è una delle cose che alla mia età un po’ mi dispiace non averlo svolto ancora più approfondito, perché lo studio è molto importante, soprattutto te ne accorgi quando cominci ad avere una certa età, perché quello che tu hai seminato stai raccogliendo. Quindi, per quanto riguarda me, avrei potuto seminare ancora un po’.
Lei è più attratto dalla precisione del tempo o dalla libertà dell’improvvisazione?
Io sono portato molto a una scansione del tempo, anche probabilmente per la mia attività che della mia vita, dei miei tempi: la mattina, il pomeriggio, così. Però nel momento in cui posso, soprattutto dove ho l’attività lavorativa, do sempre molta possibilità di creare creatività e di esprimersi a chi svolge l’attività con me.
UDINESI DENTRO è un podcast originale di Michele Menegon, la voce della sigla è di Gianmarco Ceconi, la musica di Massimo Cum, la post produzione e il sound design di Michael Hammer.
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